martedì 23 aprile 2013

Coi binari fra le nuvole, Terre Nomadi ne parla con l'autore

di Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it 


Riccardo Finelli alla stazione di Palena
© Anna Maria Colonna
Camminare, osservare, scrivere. Una combinazione di parole e di azioni che trova spazio nella vita di un uomo quando è ancora viva la capacità di osare. Riccardo Finelli, modenese di nascita, abruzzese di adozione, non è mai riuscito a fare a meno della penna. «Ho affrontato il viaggio per metterlo nero su bianco», afferma, mentre firma le copie del suo libro alla stazione di Palena. Non era solo quando ha intrapreso l’avventura. Con lui, l’amico Stefano Cipriani e, per una parte del percorso, il suocero Emanuele Donatelli.

Transiberiana d’Italia, tratta ferroviaria Sulmona-Carpinone. Abruzzo e Molise legati da una trama ferrata nata nel 1892 e che rischia di arrugginirsi in solitudine. Finelli ha percorso questa trama a piedi: trentadue chilometri al giorno e 320mila traversine per quattro giornate consecutive. Con la fatica del viaggio nelle gambe e il desiderio di conoscere e di raccontare all’orizzonte. La tratta è sospesa da dicembre 2011 perché ritenuta «antieconomica». Ma attraversa uno degli angoli più belli d’Italia. Si inerpica sulle vette abruzzesi fino a toccare il picco di 1268 metri alla fermata di Rivisondoli-Pescocostanzo, seconda solamente al Brennero (1370). Taglia paesaggi che sembrano altrove, fuori dal mondo, capaci di parlare il linguaggio silenzioso della natura.

Sulmona, Campo di Giove, Alfedena, Cerreto, Carpinone per sentire la fatica del viaggio trasformarsi in pietre che picchiano forte sotto la suola delle scarpe. E sorprendersi per un’ora a camminare nella pancia di una montagna, al buio più assoluto della galleria. È la testimonianza di chi ha osato anche per denunciare. «Pensavo che la mia traversata servisse a smuovere le acque dopo la chiusura della tratta nell’indifferenza generale», spiega Finelli. «È un pezzo d’Italia, non una semplice ferrovia», aggiunge.

Così ha deciso di mescolare la sua storia alle migliaia di storie che sul quel treno si sono fermate per il tempo di un viaggio. Camminava con il sentiero ferroviario per bussola. Osservare e scriveva. Quello che vedeva e, soprattutto, quello che sentiva. Perché lacrime e sorrisi hanno segnato arrivi e ripartenze sull’«animale di ferro, oggi bestia morente».

A tratti, i passi hanno ceduto il posto all’inchiostro, vivo sulle pagine che prendevano forma durante il viaggio. Ne è nato un libro, «Coi binari fra le nuvole» (qui il trailer), testimonianza di quanto il cammino di un uomo possa segnare la storia di territorio. Scripta manent. Per sempre.

Dal libro... 

Il problema è non dare troppo nell’occhio. Perché di ferrovieri, anche a quest’ora del mattino, la stazione è piena. Alcuni lavorano qua. Altri salgono alla spicciolata sui locali diretti a nord, verso l’Aquila, Roma o Pescara per prendere servizio altrove. Sono loro, oggi neppure un paio di centinaia, il retaggio del glorioso passato ferroviario della città di Ovidio: un tempo promettente crocevia ferroviario del Centro Italia, oggi  snodo di linee secondarie continuamente in odore di razionalizzazione.

Una posizione baricentrica che ai tempi d’oro, più o meno fino alla metà degli anni Ottanta, giustificava anche duemila ferrovieri, ad ingrossare le già abbondanti fila di un pubblico impiego di una “non provincia” in cui l’impresa privata ha attecchito soltanto fino a che sono durati i soldi della Cassa del Mezzogiorno. Basta andare a farsi un giro nella zona industriale verso l’autostrada, per scoprire un cimitero di dinosauri deprimente, fatto di capannoni abbandonati, o addirittura mai inaugurati, in cui nei decenni sono nati e morti insediamenti anche prestigiosi: Siemens, Tyessen, Crodo, Tonolli, solo per citare alcuni dei colossi industriali che nel corso dei decenni hanno fatto apparizioni più o meno fugaci. Unica presenza industriale importante a resistere è quella del Gruppo Fiat, nonostante nel grande stabilimento ormai lavorino solo poche centinaia di persone.

Ci muoviamo, passeggiando, lungo la banchina del binario uno, sempre più lontano dal centro della stazione. Superiamo i bagni, un piccolo magazzino e quella che fu una fontanella. Mano a mano che ci avviciniamo alla fine del camminamento i passi si fanno sempre più brevi e nervosi: dobbiamo cogliere il momento propizio per svignarcela sui binari senza dare nell’occhio.

L’ultima fabbricato della stazione è una casupola staccata dal resto. L’unica porta è aperta su un ufficetto da cui gracchia una radiolina, a un ritmo decisamente troppo agitato per l’orario e l’atmosfera assonnata di quest’alba fresca e cristallina. Dentro pare non esserci nessuno. Ancora pochi passi e arriviamo alle Colonne d’Ercole del marciapiede. È il momento di tuffarsi.

«Cercate qualcuno?»

La voce è alle nostre spalle. Ci giriamo e sulla porta dell’ufficio della radiolina si materializza un tizio barbuto. È in borghese, ma si muove come chi è del mestiere. Meglio non fare passi falsi.

«Ah, guardi, stavamo cercando i bagni, ci hanno detto che era qua…». È Emanuele a rispondere. Fra barbuti ci si intende.








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