martedì 26 marzo 2013

«Terre Nomadi» e la voce di Francesco Ventura in semifinale ad un concorso Rai

di Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it


Sono passati pochi mesi dalla pubblicazione del primo reportage su «Terre Nomadi». Quando è nato, questo blog aveva in cantiere pochi progetti ed un solo desiderio: dare voce ad emozioni e sensazioni in viaggio. Vibrazioni dell’anima che suonano lo stesso spartito dei luoghi incontrati e condivisi. Inaspettatamente, «Terre Nomadi» continua a crescere, registrando, ad oggi, oltre ventimila visualizzazioni ed il consenso di numerosi lettori. Ma c’è anche altro. Da bisogno urgente ed inspiegabile di dare inchiostro ai pensieri, il blog diventa tavolozza di colori a cui si mescolano voce e suoni.

Viaggio e coraggio. Viaggio di una vita. Nella vita. Su strade asfaltate o spesso ripide e piene di ciottoli. Di pietrisco che sbuccia le ginocchia ad ogni caduta. Coraggio di inseguire le proprie passioni, costi quel che costi. Perché ne vale la pena. L’intensità della vita si manifesta nell’incontro con ciò che fa battere il cuore.

«Terre Nomadi» nasce da un’esigenza di espressione che va al di là della firma e del numero di lettori. I primi reportage erano appunti e pensieri sparsi su fogli di carta. Raccolti tra una passeggiata e l’altra, in attesa del treno, alla fermata del pullman. Poi l’idea di condividerli con chi riesce a guardare oltre le parole, dentro le immagini.

Ora, a scrittura e fotografie, si aggiunge la voce. Quella dello speaker altamurano Francesco Ventura. È sua l’idea di «interpretare» un recente articolo su Rocca Calascio (Aq) pubblicato su «Terre Nomadi» . Ecco il risultato (cliccare qui).

La voce di Francesco, tra oltre mille partecipanti, è stata inclusa nell'elenco dei trenta semifinalisti di un concorso Rai dal titolo «Il Comunicattivo». Legge il primo reportage su Rocca Calascio (Aq) contenuto in questo blog (qui la prova di conduzione). A differenza della fase preliminare, non è la commissione interna a Radio Rai a dover dire l’ultima parola, ma il voto degli internauti, esprimibile attraverso questo link.

Grazie e auguri di serene festività pasquali a tutti i lettori che continuano a viaggiare con «Terre Nomadi».

La pubblicazione dei reportage riprenderà mercoledì 3 aprile.

mercoledì 20 marzo 2013

La fanova, viaggio inconsueto tra sacro e profano

di Rosaria Campanale

Questo racconto molto particolare non si svolge in un luogo, ma all’interno di antiche tradizioni che ho vissuto da bambina e che, con il tempo, si sono perse. Viaggio attraverso le emozioni ancora presenti nella memoria. Parlo della fanova, il falò che si accende in occasione della festa di San Giuseppe. La fanova, secondo la tradizione cattolica, ricorda il fuoco che San Giuseppe mise nel suo mantello per riscaldare Gesù.



Si abbina, però, anche ad un rito pagano e propiziatorio secondo il quale, bruciando i rami potati, ha fine l'inverno e comincia il rinnovamento della vita vegetale, la primavera. Augurio ed auspicio per il raccolto dei campi. Bisognerebbe assistere ad un falò. Magari partecipare al suo allestimento e farsi catturare dalla magia del fuoco. Osservare le fiamme che guizzano in svariate sfumature di colori, nella gamma cromatica del giallo e del rosso, contorcendosi, incrociandosi, mescolandosi, ogni tanto inframmezzate da lingue violacee e azzurrine, a volte verdastre, che svolazzano qua e là. E se si è catturati dalla magia, considerare il vento che trasforma il fumo in personaggi e in animali immaginari. Osservare le scintille che si propagano nell’aria e si disperdono ovunque, scoppiettando. Il falò mette allegria, dà calore e spinge anche i ragazzi più timorosi ad avvicinarsi alle fiamme, sfidando il pericolo. Tossiscono vistosamente inalando il fumo, ma si avvicinano lo stesso, attratti dalle volute contorte e altissime delle fiamme. Prendono tizzoni ardenti che sprigionano scintille e si rincorrono per gioco in una danza fatta di sfida. In un duello che è solo gioco scherzoso. 

Il fuoco, mai identico a se stesso, regala un’emozione unica. Il fuoco vibra, sembra parlare un linguaggio tutto suo, ancestrale e atavico, come se pulsasse di vita. Nella vita. Anche quei tizzoni che bruciano, incendiandosi, sembrano pulsare sviluppando fiamme rossastre e modulari, guizzi improvvisi e pericolosi, eppure attraenti come calamite. La magia del fuoco che ammalia e brucia non ci parla di devastazione e fine di ogni cosa in cenere, bensì di vita che si rinnova, di umori vegetali che, bruciando, diventano vita nuova e più feconda. Del potere della rinascita dalle ceneri. Di qualcosa di impalpabile, eppure vitale.

Colonna sonora: Ludovico Einaudi, A fuoco

 











domenica 17 marzo 2013

Rocca Calascio in bianco, un altimetro per misurare le emozioni

di Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it

Paesaggio da Rocca Calascio (Aq)
© Anna Maria Colonna
Raccolgo e misuro le emozioni con l’altimetro, mentre rimangono impigliate nei pensieri. Negli sguardi. Ho in mano un dépliant preso dal bancone del bar. «Senza musica la vita sarebbe un errore». Le parole di Friedrich Nietzsche spiccano sullo sfondo nero della prima paginetta. A quasi 1500 metri d’altezza si percepisce una musica diversa dalle altre. Quella della natura, scritta sullo spartito della vita stessa.


Rocca Calascio (Aq), ruderi del castello
© Anna Maria Colonna
Rocca Calascio (Aq), sabato pomeriggio. Il cielo è inzuppato di luce, nonostante la colonnina del termometro segni diversi gradi sotto le zero. Le nuvole fanno a gara per occupare il posto migliore, ad un soffio dalle vette. L’aria gioca con il vento. È leggera, come i passi silenziosi sul manto di neve che copre il percorso. I ruderi del castello medievale spiccano sull’altura, ma vederli da vicino crea un effetto magico. Senza tempo. Bisogna salire.

Rocca Calascio (Aq), chiesa di Santa Maria della Pietà 
© Antonio Colamonaco
Seguiamo le impronte già lasciate sulla coltre bianca, ma in alcuni punti la neve è intatta. Distesa sulla terra come se fosse una coperta sul letto appena rifatto. In lontananza le montagne sembrano sorreggere frammenti di cielo. Macchie di verde colorano il cammino, che conduce alla chiesa di Santa Maria della Pietà, risalente ai secoli XVI-XVII. Si racconta che sia stata costruita dalla popolazione locale, scampata ad un gruppo di briganti. Tutto è ignoto. E sorprende. La neve, a cui non eravamo preparati. La rocca, imponente e sospesa. Il panorama, da togliere il fiato. L’edificio sacro, solitario eppure così familiare. Inseguiamo il pomeriggio senza conoscere dove ci condurrà.

Rocca Calascio (Aq), la natura osserva la natura 
© Anna Maria Colonna
Per il freddo, l’acqua si trasforma in lastre di ghiaccio. Un cane guida i curiosi, mostrando gli scorci più belli del panorama circostante. Abruzzo. Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a pochi chilometri da Campo Imperatore, sulla valle del Tirino e l’altopiano di Navelli. La natura osserva la natura. Bisogna tornare bambini per riconquistare lo stupore nascosto dai ritmi serrati della quotidianità adulta. Fermarsi. Riprendere fiato. Riprendersi il tempo. Provare ad immaginare la vita quassù, quando il castello era abitato. Intorno all’anno Mille, quando sembra che la torre principale sia stata costruita.

Paesaggio da Rocca Calascio (Aq) 
© Anna Maria Colonna

Colonna sonora: Andrew Powell, Ladyhawke





 
Le sensazioni e le emozioni passano dalla testa al cuore. Lo sento battere ad ogni passo. Nella salita, così come nella discesa. Anche davanti ad un sentiero chiuso che costringe a rifare il giro, riportandoci sulla neve. E penso alla frase pronunciata da Phillipe Gaston in «Ladyhawke», il film di Richard Donner girato proprio a Rocca Calascio: «Queste sono cose magiche, sono cose misteriose». Inspiegabilmente lasciano il segno.

Paesaggio da Rocca Calascio (Aq) 
© Anna Maria Colonna

Paesaggio da Rocca Calascio (Aq) 
© Anna Maria Colonna
Rocca Calascio (Aq), ghiaccio 
© Anna Maria Colonna







Paesaggio da Rocca Calascio (Aq) 
© Anna Maria Colonna


Rocca Calascio (Aq) 
© Antonio Colamonaco
Rocca Calascio (Aq), il castello 
© Anna Maria Colonna



Rocca Calascio (Aq), chiesa di Santa Maria della Pietà
© Antonio Colamonaco
Rocca Calascio (Aq), il castello 
© Anna Maria Colonna
Rocca Calascio (Aq), chiesa di Santa Maria della Pietà - © Anna Maria Colonna
Rocca Calascio (Aq), ruderi - © Anna Maria Colonna



Rocca Calascio (Aq), ruderi - © Anna Maria Colonna
Rocca Calascio (Aq), ruderi - © Anna Maria Colonna

Ladyhawke, alcune scene tratte dal film girato, in parte, a Rocca Calascio.
 




giovedì 14 marzo 2013

Le rose e il chador

di Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it

Spesso le ultime pagine di un libro rappresentano il saluto prima della partenza. Si torna indietro con sensazioni ed emozioni impresse sulla pelle, quasi siano state vissute in maniera diretta. Il distacco diventa nostalgia per una storia condivisa, fatta di incontri mai avvenuti, ma realmente assaporati da chi ne ha scritto. Le parole scorrono come treni su rotaie che attraversano il mondo. L’odore della carta stampata si mescola con i profumi ed i sapori di paesi sconosciuti, scrigni di immagini da rapire con l’inchiostro. Le prime pagine sono il biglietto aereo di ogni lettore. Un viaggio che ha nell’ignoto il suo fascino più grande perché è nell’ignoto che nasce la curiosità di osservare, di capire e di scoprire. Nessun lettore sa come andrà a finire la storia, ma se ne appassiona facendola propria. E quando arriva alla fine, sente che quella storia gli mancherà perché l’ha vissuta fino in fondo. Grazie all’autore.

Un paese estraneo, difficile, può diventare familiare non solamente a chi lo visita, ma anche a chi lo legge. Durante l’estate del 2008, Barbara Nepitelli e Cesarina Trillini si mettono in viaggio verso l’Iran. Barbara raggiunge Cesarina una settimana dopo. L’esperienza delle due giornaliste parlamentari, lunga circa settemila chilometri, è la testimonianza di come un territorio assuma nuova luce agli occhi di chi lo vive in prima persona. Per conoscere occorre guardare e ascoltare. Le due donne notano subito la disponibilità e l’ospitalità della gente del posto. Frequenti gli incontri con quelli che chiamano «angeli custodi», persone pronte ad aiutarle nei diversi itinerari senza chiedere nulla in cambio.

Prima tappa del percorso, durato circa un mese ed affrontato per lo più su mezzi pubblici come autobus e taxi collettivi, è Teheran. Città del traffico, del bazar, del palazzo del Golestan, di piazza Khomeini e Azadì. Sarà l’ultima «fermata» prima del ritorno in Italia. Barbara e Cesarina, come tutte le altre donne iraniane, indossano il velo. Dopo Teheran è la volta di Quazvin, base di partenza per la leggendaria Valle degli Assassini, sulle orme di Freya Madeleine Stark e fra strade che si perdono nelle montagne. Poi il curioso bazar di Kashan, dove il pane si cuoce su sassolini che rimangono attaccati alla crosta. Qui è famosa l’acqua di rose, da bere ghiacciata, da usare in cucina e per l’igiene personale. Rose che adornano anche gli scialli delle donne del villaggio di Abyaneh. Rose simbolo di Shiraz, la città dei poeti.

Tra le difficoltà incontrate durante il viaggio, la barriera della lingua, superata dal linguaggio dei gesti e dei sorrisi, accompagnato da qualche rara parola in farsi. Ne Le rose e il chador, le due giornaliste raccontano la loro esperienza, cercando di indovinare i segreti di quella terra attraverso le espressioni di uomini e donne del posto. Un mondo ancora rigorosamente diviso fra maschile e femminile. Dove un ragazzo ed una ragazza che si piacciono possono comunicare solo attraverso messaggi scambiati con il telefonino.

Nelle pagine del libro quasi si avvertono i passi delle due scrittrici fra le strade di Esfahan, dove c’è la palestra segreta delle donne, bisognose di confessare al medico la difficoltà di conciliare i due volti della quotidianità iraniana, il dentro e il fuori. E sembra quasi di sentire il profumo del fesenjun, un piatto tipico fatto di salsa di noci e succo di melograno con piccole polpette di carne. Il tutto accompagnato naturalmente dal riso, immancabile, come il tè, sulle tavole del posto. L’inquietudine suscitata da Yazd, la città dal doppio volto, dove le due giornaliste scoprono che gli uomini non possono portare la cravatta perché simbolo dello stile di vita occidentale.

Sono solo alcuni dei tanti particolari racchiusi nel libro, pubblicato, insieme a trentadue scatti fotografici, a conclusione di un viaggio, ma non di un’esperienza. Questa, come affermano le autrici, sarebbe continuata nei contatti e nella scrittura.

Colonna sonora: Lindsey Stirling, Song of the caged bird