lunedì 23 febbraio 2015

Giorni giapponesi

di Anna Maria Colonna
terrenomadi@gmail.com


Il Giappone è un Paese affascinante e, al tempo spesso, impenetrabile. Dopo cinque anni trascorsi a contatto con la società nipponica, Angela Terzani Staude racconta la sua esperienza nelle pagine di un diario.

Spesso capita di imbattersi in libri che, pur essendo stati scritti diversi anni fa, sembrano richiamare gli avvenimentin più recenti. Le parole possono assumere altri significati se lette alla luce di una riflessione che è la realtà stessa ad incoraggiare. Penso a Tiziano Terzani e mi viene in mente il Giappone devastato dal terremoto e dallo tsunami. Pochi minuti per spazzare via non solo edifici e oggetti, ma anche certezze, sogni e speranze. Nella partita giocata con la Natura, l’Uomo perde, restando solo.

«Si arriva in questo Paese per capirne gli uomini - scriveva Terzani - ma la prima cosa che bisogna imparare è parlare con le sue macchine». Nel 1985 fu inviato come corrispondente a Tokyo, dove rimase per cinque anni. Per lui «l’inquietante Giappone» rappresentava una sorta di «abisso» con il quale non era riuscito a stabilire l’intesa sperata. Quella necessaria ad entrare in sintonia con un luogo per viverlo fino in fondo.

Anche la moglie, Angela Terzani Staude, racconta la società nipponica nelle pagine di un diario dal titolo Giorni giapponesi. La sua penna assorbe la quotidianità di un Paese osservato attraverso meccanismi complessi, affascinanti e, a tratti, impenetrabili. «Al Giappone non avevamo mai pensato - scrive -  perché in qualche modo era come fuori dell’Asia che c’interessava, ma, per poter prendere una decisione basata su dati concreti, andammo a passare due settimane a Tokyo. Tornammo scioccati». Pochi giorni «per capire che il Giappone non era certo un paese in cui uno sogna di vivere. Ci rendevamo però conto che il Giappone è anche un paese in cui sarebbe opportuno vivere perché quanto vi accade determinerà in qualche modo il nostro futuro e quello dei nostri figli».

Cinque anni intensi, durante i quali l’autrice sottolinea di aver vissuto il Giappone «dall’interno». Un’esperienza ricca di incontri, di visite, di itinerari rivelatori, di letture, di riflessioni. Il dipinto che ne risulta non contiene tonalità vivaci. Prevalgono le sfumature del dubbio e della perplessità di fronte ad un mondo che, ai suoi occhi, appare efficiente e, al tempo stesso, desolato. Non mancano, nel libro, dettagliate descrizioni di consuetudini lontane da quelle occidentali. Angela Terzani Staude si sofferma, incuriosita e sorpresa, sulle contraddizioni di un Paese ancora in parte inesplorato.

lunedì 16 febbraio 2015

La mia India. Intervista all'autore, Alessandro Iacovuzzi

di Anna Maria Colonna
terrenomadi@gmail.com

Le immagini, di Alessandro Iacovuzzi, ritraggono squarci dell'India.
  
Viaggiare è anche questo, conoscere realtà vicine o lontane cercando di captarne il meglio per crescere culturalmente e professionalmente, oppure individuarne le negatività e provare ad impegnarsi per migliorarle, se possibile.


Ha trentatré anni, fa l'architetto, insegna e convive con il «virus» del viaggiatore, «quella patologia di chi non può fare a meno di viaggiare». Alessandro Iacovuzzi, pugliese, nativo di Altamura (Ba), racconta in un libro il suo viaggio in India. Terre Nomadi lo ha intervistato.

Chi è Alessandro Iacovuzzi?
Alessandro è un architetto, docente universitario e di scuola media che, a partire dall’esperienza Erasmus svolta a Liverpool nel 2003, ha contratto il «virus» del viaggiatore. Non solo per il piacere di riposarsi e di liberarsi dalla quotidianità, bensì per imparare, conoscere, scoprire, emozionarsi e comprendere altre realtà spesso lontane dai nostri modi di vivere. E poi, da viaggiatore perpetuo, è anche affetto dalla «sindrome di Stendhal», soprattutto quando si trova davanti a straordinarie opere d’arte quale il Taj Mahal di Agra o il foro severiano dell’antica città di Leptis Magna. Nato e cresciuto tra Bari e Altamura, non è innamorato della propria città, ma percepisce enormi potenzialità soppresse, così come le notava - vent’anni or sono - nella vicina Matera, quando, da mezzo materano, viveva a ridosso dei Sassi e soffriva nel vederli cadere a pezzi...


I luoghi che hai visitato e che ti sono rimasti nel cuore? Perché?
Non posso che fare riferimento alla Siria, prima nazione mediorientale che ho visitato oltre dieci anni fa. La chiamavano «stato canaglia», ma, nel visitarla, non si avvertivano né terrore né sentore di ostilità o malcontenti popolari. Ricca di gente e architetture sublimi, tranquilla e ospitale, per millenni ha detenuto il ruolo di «terra di mezzo». Dalla Libia all’Algeria, dall’Egitto al Libano, molte sono state le mete che mi hanno riempito di quel knowhow africo-orientale educativo. Molte quelle che mi hanno forgiato e alle quali, in cambio, ho «lasciato il cuore». Tra queste, senza ombra di dubbio, vi è l’India... l’«incredible India!». Da neolaureato pronto ad emigrare, mi rivolsi ad un ordinario del Politecnico di Bari per chiedere consigli su corsi post lauream in Europa. Lui mi propose l’India e, una settimana dopo, ero già alle prese con la burocrazia per la partenza. Non avevo idea di dove fossi diretto, ma sapevo per certo che volevo proseguire l’esperienza Erasmus. Ed eccomi là, nell’ottobre del 2006, in un volo Roma - Nuova Delhi di sola andata. All’aeroporto della capitale indiana, il mio primo impatto si concretizza con l’espressione «Qua son tutti matti!». Il tassista ha il volume dello stereo altissimo. Accelera brutalmente, facendo uno slalom tra persone che attraversano la strada, motociclisti spericolati (alcuni dei quali hanno un casco da guerra arrangiato con spago), gente che scende dagli autobus sovraffollati senza aspettare le fermate, ma lanciandosi fuori dal veicolo col rischio di essere travolta. I mendicanti si trovano ovunque, così come le guide turistiche improvvisate. Intere famiglie dormono per strada intralciando anche una parte della carreggiata e alcuni uomini sono intenti a trasportare cose impensabili su biciclette, come grandi blocchi di ghiaccio o lunghissimi tubi. 

Tutti i sensi sembrano sedati da forti sollecitazioni, che mi coinvolgono in un vortice tra colori e spettacoli inattesi. Gli animali scorrazzano per le complesse vie della città, l’immondizia è riversa in ogni angolo. Le persone mangiano per terra con le mani, senza alcun supporto al cibo se non fogli di giornale, nonostante le latrine all’aperto e gli escrementi di mucche, muli e cavalli, nonostante le mosche e l’inquinamento. Un elefante attraversa un incrocio con in bocca un grande ramo d’albero che continua a masticare, procedendo indisturbato tra le auto. Rischiamo lo scontro. La temperatura è alle stelle e, nel nero taxi diretto alla stazione di Delhi, si suda e si canta più che mai. Così comincia anche il mio libro, dal titolo La mia India, edito Youcanprint, nel quale racconto non solo le sensazioni avvertite percorrendo il paese da nord a sud alla scoperta di storie, colori, contraddizioni, miseria e spensieratezza, ma anche episodi e aneddoti vissuti in un crogiuolo di emozioni, immagini, volti e parole.

L’India ti ha spinto a raccontare attraverso un libro o l'idea del libro c'era già prima di partire?
Non avrei mai pensato di trasferire i miei appunti di viaggio in un libro illustrato, ma l’energia che irraggia il paese indiano è così forte da riempire chicchessia di storie, immagini ed esperienze. Poi, a far traboccare la memoria, ci sono i bambini, che non ti lasciano mai in pace! Ti circondano e cominciano a farti le stesse domande con lo stesso tono e quasi con la stessa voce: «one pen? one rupie? one photo?». È questa, però, la vera ricchezza del subcontinente indiano, i loro volti e l’innocente bellezza, la maturità dei loro gesti e la tenerezza degli sguardi penetranti. Nonostante l’impatto traumatico iniziale, l’India riesce a meravigliare per le terre estese, il suo clamore e la sua complessità. «Per molti viaggiatori l’India è la prova del nove», cito la guida Lonley Planet. «Alcuni turisti non vedono l’ora di risalire in aereo e fuggire via, ma se amate scandagliare intrigate cosmologie, respirare un’atmosfera sovraccarica di sensualità e siete dotati di una grande capacità di comprensione dell’assurdo, allora l’India è uno dei drammi più intrigati e più densi di soddisfazioni che si svolgono sul nostro pianeta». 

Visitare l’India, paese della spiritualità e del misticismo, è prima di tutto un percorso dell’anima... Dagli splendidi monumenti antichi ai colori, alle differenze di culture, ai secoli di storia e cambiamenti, dai cibi speziati alla serenità di ogni abitante. Un’India di gioie e dolori, del bello e del brutto, del facile e del complesso, del permesso e del proibito. L’India delle feste ogni giorno e ad ogni angolo, dei rutti e degli sputi per strada. L’India dagli estremi paradossi, l’India del chai e delle mucche, l’India delle mille divinità e della pacifica e lenta vita quotidiana... E, infine, non sei mai solo. Nessun angolo di India è spopolato, si è sempre circondati da persone che ti scrutano incuriosite, spesso con una punta di timidezza. Nei piccoli villaggi ci si ritrova nella povertà estrema, tra le baracche, il the, detto chai con latte e masala, le strade brecciate e piene di buche. La gente continua a guardarti intrigata, non sa che fare. Le auto passano, attraversano questi villaggi. Qualcuno si ferma per un po’ e poi riparte, lasciando dietro indigenza e sorrisi degli abitanti.

L’esperienza più forte dell’intero viaggio in India?
C’è un aneddoto estratto direttamente dal mio libro-diario di viaggio che mi rattrista, ma mi riempie anche di forza e sicurezza. Varanasi è la meta di quegli anziani ormai al capolinea, che aspettano la morte, spesso lasciandosi trasportare dal digiuno e dalla malattia. In molti riescono ad accumulare un po’ di denaro per raggiungere le rive del Gange da tutte le parti del subcontinente. Assisto alla mesta cerimonia di cremazione dei corpi al Manikarmika gath. I corpi, avvolti in sudari, vengono trasportati su pseudobarelle in canne di bambù. Sono immersi nel Gange e poggiati su una pila di tronchi di legna. Dopo vengono ricoperti con altri pezzi di legno e infine dati alle fiamme. Questa operazione, divenuta un business per la vendita del legname, avviene per circa duecento corpi al giorno, spesso quattro, cinquecento contemporaneamente, l’uno accanto all’altro... un’immagine terrificante che da secoli si svolge lungo le sponde del fiume varanasiano. 

Quattrocento anni fa, la moglie della divinità Shiva si lasciò bruciare proprio su queste rive. Solo così i corpi si possono liberare dalla reincarnazione, sperando in una vita migliore dopo la morte. Navigando lungo il fiume più inquinato al mondo, gli occhi ricadono su questi mucchi di legna e cadaveri, avvolti dal fumo denso e nero della combustione. Nessuno piange, nessuno ha la faccia triste o dispiaciuta. Alcuni intonano canti e offrono dolci ai familiari dei defunti, sembrano addirittura sorridere e si fanno avvolgere dal fumo che colora questo caldo e sacro posto degli indù. I mucchietti di legna e la procedura di rogo variano in base alla ricchezza del morto. C’è chi viene arso su cataste enormi di legna col fuoco alimentato in continuazione e chi, disponendo di pochissimo legname, non riesce a trasformarsi in cenere. Ma le acque sacre del Gange accoglieranno sia la polvere delle cremazioni sia i pezzi di corpi mai carbonizzati.

Ci torneresti... o ci tornerai?
Beh, in realtà bisogna essere molto forti psicologicamente per restare più di un mese in India e l’idea di visitare «turisticamente» - e per pochi giorni - le città non è proprio il mio ideale. Solo vivendo le città si percepisce l’anima di un posto. Per cui cercherò di portare avanti le ricerche universitarie sulle architetture antiche inserendo qualche caso di studio dell’india Mogul per tornare a fotografare le superbe architetture e i magici posti del subcontinente più assurdo del globo terrestre. Un subcontinente che si fa amare e odiare, ma che è impossibile dimenticare.
Prossime mete da fotografare? 
Il continente opposto, l’America Latina, sempre con lo sguardo del «viaggiatore nomade».







Colonna sonora: Sona Mohaptra, Bolo Na 





















domenica 15 febbraio 2015

Road movie: La teoria del tutto



di Miriam Pallotta
miriam_pallotta@libero.it

Manca poco meno di una settimana a uno degli eventi più importanti nel mondo del cinema, gli Oscar. Oggi vorrei proporvi uno dei film candidati. Vorrei, inoltre, ricordare che il 28 febbraio è la giornata mondiale dedicata alle malattie rare.


La Teoria del Tutto (The theory of everything) è un film biografico scritto da Anthony McCarten, tratto dal libro Travelling to infinity: my life with Stephen di Jane Hawking. Questa è la storia di un ragazzo che ha rivoluzionato la scienza. Questa è la storia di uno dei viaggi più grandiosi di sempre. Un viaggio attraverso i ripidi scogli, gli immensi deserti e gli incantevoli tramonti della vita. Invertiamo il movimento delle lancette dei nostri orologi e torniamo indietro nel tempo.






Cambridge 1963. Stephen Hawking è un brillante studente di scienze ateo, «un fisico non può permettersi di credere in Dio», dice.




Durante un festa universitaria incontra lei, Jane Wilde, studentessa di lettere e credente. Tra i due nasce un grande amore che viene ben presto messo a dura prova.



È un giorno come tutti gli altri, Stephen passeggia nei giardini del Campus quando improvvisamente le sue gambe lo abbandonano e cade inerme. Malattia dei motoneuroni, questa è la diagnosi. Due anni di vita.

  

Con il passare del tempo perde l’uso della parola e il controllo sul suo corpo, ma non l’amore per la sua Jane e per la scienza. Nonostante tutte le difficoltà, riesce a prendere il dottorato in fisica con una teoria sui buchi neri. Lui e Jane avranno tre figli.



Stephen continua a dedicare il suo studio alla ricerca della teoria del tutto, una sola equazione che spieghi la nascita dell’universo e come esso sarebbe stato all’alba dei tempi.


Oggi, contro ogni aspettativa, ha 73 anni ed è considerato uno dei più grandi fisici, astrofisici e cosmologi dei nostri tempi.  Lui e Jane sono rimasti amici.

Per quanto possa essere dura la vita, finché c’è vita, c’è speranza.

Stephen Hawking e Eddie Redmayne
A sinistra, Stephen e Jane Hawking il giorno del loro matrimonio. A destra, gli attori Eddie Redmayne e Felicity Jones
 

Curiosità

- Il budget è stato stimato sui 15 milioni di dollari.

- Alla prima del film, un'infermiera ha tolto una lacrima dalla guancia di Stephen Hawking.

- Stephen Hawking ha confessato che ci sono alcuni punti in cui ha pensato di star guardando se stesso.

- Eddie Redmayne ha incontrato Stephen Hawking solo una volta prima di iniziare le riprese. «Nelle tre ore che ho trascorso con lui, ha detto forse otto frasi. Non me la sentivo di chiedere cose intime». Ha, quindi, trovato altri modi per prepararsi al ruolo. Ha perso circa 15 chili e si è allenato per quattro mesi con una ballerina per imparare a controllare il suo corpo. Ha incontrato 40 pazienti affetti da Sla, ha tenuto un grafico di monitoraggio con l'ordine in cui i muscoli di Hawking sono degenerati, ha usato uno specchio per ore, contorcendo il viso. E' rimasto poi immobile e curvo tra una ripresa e l'altra, tanto che un osteopata gli ha fatto notare come stesse modificando l'allineamento della spina dorsale. «Temo di essere un maniaco del controllo», ha confessato Redmayne.

- Eddie Redmayne ha considerato il suo ruolo una sfida pesante perché il film non è stato girato in ordine cronologico. Quindi ha dovuto tracciare il deterioramento fisico di Stephen Hawking nel momento di ogni scena.

- Cinque nomination ai Premi Oscar 2015: miglior film, attore protagonista a Eddie Redmayne, attrice protagonista a Felicity Jones, sceneggiatura non originale e colonna sonora.


Regia: James Marsh
Sceneggiatura: Anthony McCarten
Produttore: Anthony McCarten, Lisa Bruce
Montaggio: Jòhann Jòhannsson
Scenografia: John Paul Kelly
Costumi: Steven Noble
Trucco: Jan Sewell


Interpreti 
Stephen Hawking: Eddie Redmayne
Jane Hawking: Felicity Jones
Beryl Wilde: Emily Watson
Jonathan Hellyer Jones: Charlie Cox
Dennis William Sciama: David Thewlis
Brian: Harry Lloyd